di Federica Bianchi
“Alcuni igienisti consigliano il pasteggiar coll'acqua anche durante il pranzo, serbando il vino alla fine. Fatelo se ve ne sentite il coraggio; a me sembra un troppo pretendere”. Così scrive Pellegrino Artusi in “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Questa lapidaria osservazione indica quanto fosse importante per il grande gastronomo accompagnare il buon cibo, di cui era appassionato cultore, con un buon bicchiere, sgomberando il campo da insinuazioni e dubbi su una sua presunta indifferenza verso il ‘nettare di Bacco’.
No, Artusi non era astemio. Al contrario, pur avendo ben chiare alcune regole salutistiche (specialmente per quanto riguarda la moderazione nel bere), apprezzava il piacere del buon vino e aveva gusti ben precisi, prediligendo quello delle colline romagnole, che si faceva mandare regolarmente da Polenta di Bertinoro, a due passi dalla nativa Forlimpopoli. Purtroppo, a volte, il trasporto influiva negativamente sulla qualità del prodotto, e il buon Pellegrino, confermando il suo palato fine, se ne lamentava, come testimoniano le sue lettere.
E allora, come mai Artusi - tanto preciso, quasi puntiglioso, nell’istruire su ingredienti e preparazioni - quando parla di vino nel suo celebre manuale ricorre a termini generici, quasi banali (‘bianco’, ‘rosso’, ‘asciutto’, ‘dolce’, e poco altro)?
Ci sono naturalmente, delle eccezioni: il grande Pellegrino parla spesso di Marsala e di Madera, raccomanda il moscato per la preparazione del ‘fegato al vino bianco’ e il vin santo per lo ‘zabajone’ e – per passare ai rossi -, nella seconda edizione, inserisce fra gli ingredienti del pollo alla cacciatora “mezzo bicchiere di San Giovese od altro vino rosso del migliore”, mentre il Chianti viene suggerito per un dessert di fragole. Curiosamente, poi, sia chianti che sangiovese compaiono (insieme al ‘bordò’) fra le possibili opzioni per preparare una bibita inglese, la Claret Cup. Ma, in generale, le prescrizioni enologiche contenute nel manuale restano piuttosto vaghe.
Secondo Alberto Capatti, Direttore Scientifico di Casa Artusi, che all’argomento ha dedicato un breve testo, ci sono almeno due fattori da considerare.
In primo luogo, va tenuto in conto il fatto che nell’Italia di fine Ottocento, in cui vede la luce “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, i prodotti tipici (vino compreso) non hanno ancora l’identità e il rilievo che avrebbero assunto ai giorni nostri. Del resto, per un borghese di quell’epoca era buona prassi consumare i vini della propria provincia o, al massimo della propria regione.
Ma c’è soprattutto un aspetto pragmatico: con un formidabile intuito per la comunicazione, Artusi si rende conto che suggerire un bianco o un rosso, limitandosi a specificarne gli aspetti qualitativi (buono, secco, dolce, ecc.), permette di comunicare meglio la ricetta e di renderla più ‘abbordabile’: inutile raccomandare un vino del Reno, se l’esecutore del piatto non può averlo a disposizione.
Quasi certamente, questa scelta è stata dettata dalla profonda conoscenza che Artusi aveva del suo pubblico, frutto del suo contatto diretto con le tante corrispondenti – quasi duemila - sparse per lo Stivale. Con un fitto scambio epistolare, le signore gli fornivano ricette, gli offrivano suggerimenti, gli sottoponevano dubbi, e il gastronomo rispondeva a stretto giro di posta. Una vera e propria community ante litteram, in cui Pellegrino Artusi si pone come antesignano di tanti blogger e influencer dei giorni nostri. Niente male per un signore nato esattamente 200 anni fa e che, con il suo libro (ancora oggi il più letto sulla cucina italiana) ha saputo dar vita all’idea dell’Italia Gastronomica negli anni in cui si creava l'identità culturale del nostro paese.
È un’ulteriore conferma della straordinaria modernità di questo originalissimo protagonista della cultura italiana.