Ebbene sì, anche io come tanti italiani durante il lockdown, mi sono cimentata nella produzione di pane fatto in casa con risultati più o meno deludenti. Infatti, anche se il fai da te culinario mi ha aiutato a superare la chiusura forzata, resto dell’idea che il pane sia una delle cose più difficili da preparare per una principiante pasticciona come me. Oltre al tempo e alla pazienza servono precisione, concentrazione e una buona abilità manuale.
Dunque, abbandonati i tentativi da panificatrice amatoriale, ho preferito affidarmi a chi il pane lo sa fare per davvero. Un mercoledì mattina, complici le temperature gradevoli di queste prime giornate autunnali, ho pedalato fino al Mercato dell’Agricoltore, quello ambulante che si tiene ogni mercoledì e sabato sul fiume Savio di Cesena, tra il ponte nuovo e il ponte vecchio, e che valorizza la produzione locale ospitando le aziende agricole a ‘Km0’ con i loro prodotti tradizionali e biologici. In vendita non solo frutta e verdura, ma anche vino, olio, formaggi, confetture, fiori, piante e, dulcis in fundo, il pane.
Mi avvicino al banco e aspetto pazientemente il mio turno, c’è già un bel po’ di gente in attesa, segno che sono molti i cesenati che come me apprezzano queste pagnotte così speciali. Siamo in fila per il pane dell’Azienda Tirli di Santa Sofia: un pane dal gusto antico che nasce solo dalle farine dei grani biologici macinati a pietra, lunghe lievitazioni con pasta madre e cottura in forno a legna.
È lo stesso Paolo Marianini, il titolare, a servirmi spiegandomi le caratteristiche e le particolarità delle pagnotte in vendita: c’è quella integrale con la spiga di grano incisa sulla crosta, quella di grano dura Senator Cappelli più chiara e soffice, quella di farro, quella ai semi, alle noci, alla curcuma. Nell’imbarazzo della scelta decido di acquistarne diverse perché, come mi assicura lui, “questo è come il pane delle nostre nonne, che si faceva solo una volta a settimana e si manteneva per diversi giorni. Vedrai che ti piacerà ancor più domani e il giorno dopo sempre di più”.
Vorrei chiedergli dei grani che utilizza, della lievitazione naturale che pratica e magari carpire qualche segreto sulla magica arte della panificazione, nel caso un giorno mi venisse la voglia di tentare nuovamente l’impresa, ma la signora dietro di me incalza: è giunto il suo turno! così mi accordo con Paolo per una visita in azienda.
Vengo accolta in un bel podere sulle colline sopra a Santa Sofia, l’aria è quella buona e fresca di montagna, ed è proprio qui che vengono coltivati i grani utilizzati per il pane. I grani, si, al plurale perché sono tante le tipologie antiche, che differiscono per morfologia, altezza della spiga, colore e proprietà organolettiche.
Paolo coltiva una popolazione di 5 varietà di grano tenero vecchie oltre cent’anni, il farro dicocco, quello più antico con spighe piccole e delicate, e il grano duro Senator Cappelli, l’ultimo nato da incrocio di varietà prima delle modificazioni genetiche degli anni 70.
Perché da qualche anno si parla così tanto di ‘grano antico’, cosa è cambiato nell’ultimo secolo tra noi e questo nobile alimento che ci accompagna da millenni?
Son cambiati innanzitutto i metodi agronomici, di coltivazione e di selezione genetica così come le tecnologie di produzione sono diventate sempre più estreme per velocizzare i processi produttivi. Agli inizi del 900 è iniziata la selezione di varietà più produttive rispetto al passato a opera di un genetista italiano, Nazareno Strampelli, che ottenne un seme di grano duro a cui diede il nome di Senator Cappelli, in onore del primo promotore della riforma agraria dell’Italia Unita. A quel tempo l’intento era nobile perché aumentando la produttività del grano si poteva meglio sfamare la popolazione appena uscita dalla guerra mondiale. Il problema è che, col passare del tempo, questo intento di miglioramento genetico è passato ad essere asservito agli interessi dell’industria alimentare. Negli anni 70 tramite bombardamento di raggi gamma si sono ottenute mutazioni genetiche che hanno portato a specie con fusto molto basso e dunque meno soggetto all’allettamento in caso di pioggia e forti venti, molto più produttivo con spighe grosse e piene e soprattutto che ben rispondeva alle concimazioni chimiche tipiche di quegli anni. Il primo grano moderno ottenuto in questo modo viene chiamato Creso e i suoi discendenti costituiscono oggi le varietà dominanti sul mercato. Si tratta di specie modificate e selezionate esclusivamente per diminuirne la suscettibilità alle malattie e aumentarne la resa (un grano moderno produce tra i 60-80 quintali di granella per ettaro contro i 20-25 di quelli vecchi) trascurando però gli aspetti salutistici, perfettamente in linea dunque con la produzione industriale che richiede farine sempre più ricche di glutine senza preoccuparsi del fatto che a decadere sono le proprietà organolettiche e nutrizionali.
“Riscoprire le vecchie varietà abbandonate” ci spiega Paolo “ci permette invece di conservare un valore inestimabile dal punto di vista storico, organolettico e paesaggistico, e di lasciare in eredità alle generazioni future un tesoro fatto di sapori, aromi, colori e forme essenziali al fine della biodiversità e del recupero di specie autoctone tradizionali”-
Da queste scelte coraggiose nasce un pane ben diverso dai quelli industriali gonfi e bianchi, fatti di farine impoverite di tutto, che hanno bisogno del sale per avere un qualche sapore.
“Il mio pane è sciapo, prima di tutto per una coerenza territoriale: ci troviamo a Santa Sofia, in quella parte di Romagna che fino al 1923 faceva parte della provincia di Firenze, qui la cultura gastronomica è molto influenzata dalla cucina toscana. Il pane è insipido perché si accompagna al prosciutto che da noi è salato a differenza di quello dolce emiliano. Di sale ne metto solo un pizzico in tutto l’impasto, serve a fini conservativi per evitare proliferazioni batteriche ma non influisce minimamente nel gusto. È il grano buono e la lenta lievitazione che danno sapore, nient’altro.”
Dopo le farine è il metodo di lievitazione a fare la differenza. La scelta di utilizzare la pasta madre è per Paolo imprescindibile, significa per lui onorare la tradizione popolare e famigliare: “Ho scoperto la preziosità del pane nei racconti di mia nonna che quando andò in sposa ricevette da sua madre, assieme al corredo, un pastellino di prezioso “formento” (lievito madre). Ricordo la dedizione che mia madre e mia nonna mettevano nel perpetuare quel rito tramandato a loro da millenni, generazione dopo generazione, e che aveva come risultato il miracolo del pane”
Oggi il lievito usato non è più quello di allora: una volta iniziato il progetto si sono susseguiti studi e sperimentazioni in affiancamento a grandi maestri panificatori, tra cui Ciro Pasi uno dei lievitisti migliori al mondo, che lo hanno sostenuto insegnandogli il mestiere.
Infatti, Paolo è un uomo che si è reinventato: è del 2009 la decisione di lasciare un lavoro da dipendente ben retribuito per dedicarsi alla terra della famiglia e costruire un’attività agricola che fosse sostenibile e che valorizzasse il territorio montano di Santa Sofia. Successivamente è nata l’idea di produrre il pane, offrendo un prodotto che si distinguesse per qualità, filiera corta e che soprattutto fosse buono per far riscoprire a molti il gusto autentico di un cibo vero:
“Io sono prima di tutto un contadino che lavora e rispetta la terra perché dobbiamo ricordare che tutto ciò che mangiamo proviene dalla terra, anche il grano per fare il pane che mettiamo ogni giorno sulle nostre tavole”