L’Italia del vino vive sempre più dentro una “bolla”: il nostro Paese è il primo produttore al mondo (quota del 27%) e il primo esportatore di metodo charmat. Lo dice l’Osservatorio Ovse-Ceves secondo cui nel 2019 la produzione di bollicine italiane si è attestata su 750 milioni di bottiglie (+8,5% rispetto al 2018), di cui 550 milioni hanno preso la via dell'estero, mentre solo 200 sono rimaste sul mercato interno. Il valore complessivo in cantina è stato di circa 1,9 miliardi di euro (+3,9%).
Il mercato si divide fra 720-725 milioni di bottiglie di metodo italiano (charmat) e 27,5-28 milioni di metodo classico. L’export si conferma la destinazione con la maggiore crescita, dove il giro d'affari si aggira sui 6,1 miliardi di euro (oltre 3 volte il prezzo alla produzione). A parte la Germania che segna ancora un anno in calo (-8%) e un leggero freno in Usa (solo +5%), tutti gli altri Paesi crescono ancora: dal 6% della Gran Bretagna al 26% del Giappone, fino al 15-16% di Russia e Francia.
Malgrado la situazione sia positiva non bisogna cantare troppo vittoria, spiega Giampietro Comolli presidente dell'Osservatorio Ovse. “E’ fondamentale puntare su canali innovativi e su nuovi Paesi oltre gli attuali 115. In soli 5 Paesi va il 62% dell’export. Urgono azioni di formazione e valorizzazione, una casa e un percorso unitario che esalti le differenze, che spieghi al consumatore straniero (e anche nazionale) la grande biodiversità enologica”.
E le cantine della nostra regione come se la cavano in questo contesto? In chiaroscuro, sempre secondo Comolli. “Siamo davanti a un mercato assai diversificato per le bollicine, e anche molto complesso, purtroppo ancora ancorato al modello e al sistema di vendita basato sul rapporto qualità-prezzo, sulla etichetta indecisa, sulla non scelta fra frizzante e spumante, sulla tradizione legata al consumo locale per tipo di alimentazione, con un brand solo orientato all’estero in modo evidente come nel caso del Lambrusco. Credo che 200 milioni di bottiglie siano una massa critica già molto importante per canalizzare l’export”.
Comolli evidenzia una certa dinamicità in Romagna sul fronte delle bollicine. “C’è un nascente polo romagnolo con una impronta ben definita legata al ‘metodo italiano’ che oggi permette di arrivare e scalare diversi mercati ed avere canali distributivi più alla portata. Credo che la tipologia di sapore e il metodo di produzione che lega la freschezza, il metodo italiano, i profumi possa dare un grande risultato. Mentre il consumatore emiliano è più continuo, più legato a una identità, più legato ad una cucina ideale (ma nello stesso tempo c’è una gande confusione comunicazionale e di designazione fra frizzanti e spumanti), quello romagnolo è più internazionale, più discontinuo e meno di fiducia, però molto più sensibile all’origine produttiva e alla tradizione di tipologia, di denominazione anche più legato ad etichette regionali”.